IL MIO DIZIONARIO (di Vincenzo Palmisano) – 7^ parte

Giardini

Quelli che ad Ostuni e in altre città si chiamavano orti periurbani a San Michele si chiamavano giardini.

Il più esteso era quello di Epifani.

Il centro e il cuore pulsante del giardino era la noria. Macchina azionata dal movimento circolare continuo di un paziente asinello che tirava acqua da un pozzo profondo e attraverso una fitta rete di canaletti irrigava tutto il campo. Grazie all’abbondanza dell’acqua, la terra aveva la morbidezza e il colore del caffè appena macinato.

Tra i tanti ricordi che mi legano a quel giardino, ce n’è uno che sempre mi accompagna.

Tardo pomeriggio d’estate. Il sole accarezza le case e il cielo ha la lucentezza della seta. Il giovane apprendista di Epifani spinge un carretto colmo di ortaggi appena raccolti e gira per il paese gridando: cu lu pilu e senza pilu ( con il pelo e senza il pelo ), ogni tanto si ferma, poi avanza e ripete: cu lu pilu e senza pilu.

Così vociando, invita le donne ad acquistare i cocomeri ( i cetrioli ). Quelli dalla buccia liscia e quelli ricoperti da una morbida peluria vegetale. Ancora oggi, quando li mangio freschi e croccanti, penso ai cetrioli di Epifani e risento tutto il sapore dell’infanzia.

Sono la mia proustiana madeleine.

Lavoro

Il lavoro, per sua natura concreto e reale, è diventato un bene immateriale.

Non si vede, non si tocca.

Si sogna.

Moda

Dopo lo strepitoso successo di “Romanzo criminale” di Giancarlo De Cataldo, se non scrivi un thriller, un giallo, un noir, un poliziesco, un horror, non sei uno scrittore.

E’ la moda, bellezza!.

Ossessione

Quando il grande scrittore francese Flaubert non riusciva a trovare la parola che gli serviva per chiudere poeticamente una frase, per concentrarsi e sfogliare il dizionario della memoria, si chiudeva nell’armadio e, appena la trovava, usciva e tornava a scrivere.

Lo raccontavo spesso ai miei ragazzi questo aneddoto e loro si spanciavano dalle risa e commentavano: Pazzia, pazzia!.

Poi, a poco a poco, capivano: quella non era solo una ossessione lessicale, ma anche una esigenza artistica, un’ansia di perfezione.

Leggenda o verità?. Chissà. Pazzia certamente no.

Per noi comuni mortali, la parola giusta al posto giusto. Per il genio Flaubert, la ricerca del sublime.

Così l’implicito messaggio acquistava trasparenza.

Lombardata

Questa è sempre stata per me una strana parola. Strana perché, quando i lessicografi scrivono che lombardata è una catena rada di muratori che si passano mattoni gettandoseli l’uno verso l’altro, io penso non ai muratori, ai lombardi o ai longobardi, ma ai lombi, ai muscoli, alla forza e alla fatica che quel lavoro comportava.

E immediatamente mi torna alla mente l’antica “carovana facchini” dei nostri paesi, i cui componenti, alla stessa maniera dei muratori lombardi, si guadagnavano il pane quotidiano scaricando un traino o un camion di angurie, pacchi, oggetti e manufatti  vari.

Se però si trattava di sacchi di cemento, cereali, farina, mandorle, e roba simile, era la schiena di ogni singolo scaricatore che si curvava sotto il peso di piombo di quei materiali. Allora quella rada catena chiamata lombardata non era più una semplice cinghia di trasmissione umana ante litteram.

Salvatacco

Una piccola mezza luna di metallo che il calzolaio inchiodava sul tacco delle scarpe per salvarle dalla consunzione ed evitare che si sfasciassero.

Tanto tempo addietro, quando la guerra infuriava e la miseria dilagava, e non bastava più rifare tante volte la solatura.

Mistilinguismo

Abbiamo conosciuto, io e mia moglie Caterina, un contadino sanvitese che non dimenticheremo mai.

Era uno straordinario raccontatore di storie personali e locali.

Parlava in dialetto e la sua fascinosa affabulazione catturava la nostra attenzione, suscitando in noi un vivo interesse. Lo incontravamo  in casa di mia madre, a San Vito, e, appena ci vedeva,  ci intratteneva con i suoi racconti, perché gli piaceva molto il nostro evidente piacere di ascoltarlo. Quello che ci colpiva di più era  la sua bravura e la sua naturalezza nel mescolare il dialetto con l’italiano, generando un mistilinguismo che sarebbe piaciuto al Gadda del “Pasticciaccio de via Merulana”. Peccato che non lo abbia mai registrato.

Oggi, quando non ricordo il suo nome, per far capire a Caterina di chi sto parlando, le dico : il dottore di parturenza, uno dei tanti neologismi da lui creati.

Così, infatti, chiamò il ginecologo quando rievocò il giorno in cui sua moglie diede alla luce il loro primogenito.

P.S.

Non gli sentimmo mai dire partorire, partoriente, né poteva sapere che tanto tempo prima di lui, in italiano il parto si chiamava anche partorimento, parola ormai morta e sepolta.

Vincenzo Palmisano

( continua )

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Un Commento a “IL MIO DIZIONARIO (di Vincenzo Palmisano) – 7^ parte”

  • midiesis:

    Il giardino di Epifani, per noi “lu wuert di Jawustin” (presumo “l’orto di Agostino”).

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