Vita durante la prigionia in Germania del Sergente PIETRO PRETE

Riceviamo da Felice Prete e di seguito pubblichiamo:

IL SERGENTE PIETRO PRETE

Per caso, guardando una vecchia foto in casa di Maria Prete, ho chiesto chi fosse quella persona. La mia parente (la mamma di Franco, Fabio, Piero, Vita e Vittoria Amico) mi ha risposto che era il suo papà Pietro (morto nel 1971) e fratello di mio nonno Felice. Per farmelo conoscere meglio mi hanno fatto leggere quattro fogli dattiloscritti, ricavati dalla trascrizione di un manoscritto originale trovato nel fondo di un comò dai parenti che si erano riuniti in occasione della sua morte.

Sono rimasto colpito da questa persona che, nel suo diario, descrive con dovizia di particolari i sentimenti di marito, di padre e di soldato. Colpisce la brutalità della guerra. Colpisce il fatto che questa brutalità non cancella l’umanità delle persone che continuano ad avere coraggio, a sperare, a lottare per la sopravvivenza. Nel suo racconto, alcuni accenni alla pandemia del 1918 rendono ancora più interessante la testimonianza.

VITA DURANTE LA PRIGIONIA DI GERMANIA

Il 29 settembre del 1917 partii dal fronte in licenza, perché chiamato dalla famiglia per una grave malattia del mio figlio Antonuccio. Per la strada molti pensieri si affollavano nella mente. Pensavo continuamente a ciò che era potuto accadere. Giunto a casa trovai mio figlio meno grave. Passai quei giorni della licenza tanto contento insieme ai miei cari. Però il 14 ottobre dolorosamente con le lacrime agli occhi, dovetti distaccarmi da loro, anche perché la mia partenza era diretta alla trincea.

Durante il viaggio me la passai bene. Il 17 ottobre giunsi alla mia compagnia, presso Talmine a Ronchini in mezzo alla montagna boscosa di castagne. Il primo pensiero fu quello di scrivere alla famiglia, assicurando loro del buon viaggio fatto. Dopo domandai in giro cosa si diceva. Mi risposero che al mattino successivo ci sarebbe stato un forte bombardamento tedesco. Noi eravamo in terza linea di resistenza, quasi 8 km dalla prima linea.

Il mattino del 18 si seppe che era stato rinviato il bombardamento per il giorno 24. Intanto quel mattino incominciammo il lavoro in cima alla montagna costruendo delle piazzole di mitragliatrici. Ogni tanto arrivava qualche granata. Il cielo incominciava a piovere, lì si lavorava ogni giorno e sempre pioveva. La mattina del 23 venne l’ordine di spostamento più avanti di Ronchini di un km, in mezzo ad un’altra vallata boscosa. Il cielo sempre pioveva e si diceva che la mattina del 24 alle ore due doveva iniziare il bombardamento. Infatti a quell’ora precisa si scatenò un bombardamento infernale.

Colpi di tutti i calibri e di tutte le specie. Pensavo: “Ohimè forse è giunta l’ora della mia morte”, però avevo sempre coraggio. Mi sentivo male perché da tre giorni non mangiavo. Spesso rimettevo e il dottore non se lo sapeva spiegare. La sera del 24 avemmo l’ordine di schierarci in trincea. Io con la mia sezione mi trovavo ad una curva della montagna, nell’imbocco di una galleria che aveva l’uscita verso il nemico. Diversi soldati di artiglieria si davano alla fuga impazziti per la paura, gridando che ci avrebbero macellati tutti.

Il bombardamento continuava e la pioggia pure. La notte del 25 per la forte stanchezza mi addormentai un po’ e sognai la zia Giovanna di Ceglie. Portava nella mano sinistra la bidina della Madonna del Carmine. Lacrimante mi disse: “Pietro, ti do questa bidina e tienila con te che ti deve liberare: “Mi svegliai, pensai un po’ “fosse vero”. Io speravo sempre. In quel momento cessava il bombardamento e ci accorgemmo che eravamo circondati dal nemico. Quella notte nella mia sezione ci furono due soldati feriti.

Era l’alba del 26 e arrivò l’ordine di ritirarci a Ronchini. Vicino Ronchini stava la trincea di resistenza e noi dovevamo entrare in quella trincea che era ben fortificata. Il passaggio era occupato dal nemico, fummo costretti ad aprire un nuovo passaggio tagliando i reticolati dietro i quali i tedeschi avevano piazzato una mitragliatrice che faceva fuoco. Mi dissi “Ecco qui mi ammazzeranno”, ma avevo sempre coraggio. Di corsa partii, era in salita. Giù in basso, si trovava una grande buca di granata che era piena di feriti e di morti. Chiedevano aiuto, ma in quel punto nessuno li poteva aiutare. Il passaggio era tutto bagnato di sangue. Anche in quel benedetto punto fui liberato. Giunti nella trincea, dopo due minuti, ad un tratto giunsero i tedeschi con la pistola impugnata a due passi di distanza, ci fecero segno al disarmo. Ecco il momento della prigionia. Ci disarmarono e ci portarono verso un loro posto di medicazione.

Lì vidi il mio Comandante di Compagnia, il Comandante di Brigata, e il Comandante di Battaglione. Il bombardamento era cessato completamente. In cielo comparve una nostra squadriglia aerea e ci bombardarono e ci mitragliarono. Lì ci fecero caricare circa 150 feriti italiani, tedeschi e borghesi che lavoravano al fronte. I feriti li abbiamo portati per 24 ore sulle spalle. Il tempo sempre pioveva. Il doloroso viaggio fu di 4 giorni e 4 notti, senza mai fermarci, a piedi e senza mangiare. Se qualcuno si fermava lo ammazzavano. Giungemmo a Lubbiano la sera del 29 ottobre. Io avevo portato una coperta da campo, la posai a terra sul fango e mi addormentai. Il tempo sempre pioveva a dirotto. Eravamo circa 500 mila anime che soffrivano a campo scoperto. Da mangiare non si parlava neppure.

Lì stettimo due giorni. Il 31 ottobre, dopo sei giorni, ci dettero, al momento che ci mettevamo nei vagoni per la partenza, un mestolino di acqua con orzo e un penno di galettine. Ci misero sul treno, 56 per vagone, chiusi di dietro. Ci aprivano ogni 24 ore, per bisogni corporali. Il doloroso viaggio fu di 4 giorni e in quei giorni, avemmo da mangiare una tazza di caffè, una fettina di polenta e mezza scatoletta di carne. La mattina del 4 novembre giungemmo a Monaco. All’arrivo avemmo un pezzettino di formaggio e un quarto di pane, era il primo pane dopo 10 giorni. Da quel giorno in poi, il pane, anche se poco, l’avemmo tutti i giorni. Subito ci fecero il bagno, l’iniezione per il vaiolo, ci dettero la coperta e il pagliericcio per dormire. Si stava male, tutti i giorni piovigginava e faceva molto freddo.

Molti cascavano a terra e morivano. Eravamo arrabbiati per la fame e ci davano bastonate. Per la fame scavavamo le radici delle erbe e ce le mangiavamo senza lavarle. Una sera domandai una gavetta di rancio per 5 lire, ma non me la dettero nonostante che ci fossero italiani in cucina. Ma come potevo fare, non potevo resistere tantomeno dormire. La sera verso le 10 mi alzai come un pazzo e andai a bussare alla porta della cucina, con l’intenzione che se non mi avessero dato niente da mangiare, avrei combinato qualche sciocchezza. Senza parole, mi dettero una scodella di orzo ed una di baccalà, di quello buono che si cucinavano per loro. Così per il resto della nottata riuscii a riposare. Giorno 12 con piacere scrivemmo alla famiglia per la prima volta, dando nostre notizie.

Il 14 partimmo per Amburgo ove trovammo dei prigionieri francesi. Anche lì stavamo male però il rancio era condito col sale. Giorno 16 scrivemmo per la seconda volta alla famiglia. Ad Amburgo per la fame detti via l’orologio ai francesi per una pagnotta e trentaquattro gallette. Stettimo in quella località 8 giorni e poi partimmo per Germescheim dove giungemmo il 24 novembre 1917. Anche in quel campo si mangiava malissimo e in più tutti i giorni a fare istruzioni.

Il 29 partimmo 200 persone per lavorare alle ferrovie di Ogghesem. Anche lì stavamo malissimo ma per il dormire no, perché eravamo alloggiati in una fabbrica di tessuti. Eravamo obbligati a lavorare e di paga avevamo 30 feniche al giorno. Soffrivamo per il freddo e per la fame. Non potevamo comprare niente. Rubavamo delle barbabietole e le mangiavamo crude. Il giorno del S. Natale da mangiare ci dettero barbabietole rubate da noi stessi. Stavamo molto male per il lavoro. La mattina prima di fare giorno eravamo sul posto di lavoro. Il terreno era sempre coperto di neve ghiacciata che dovevamo togliere prima di incominciare a lavorare. Quando pioveva non ci facevano smettere e la notte dormivamo con quei panni addosso.

Il 4 marzo ricevetti la prima lettera dalla famiglia. Ecco il momento in cui il mio cuore si riempì di gioia e di contentezza perché sicuro che la mia famiglia avesse ricevuto mie notizie. Per mesi erano stati nell’angoscia e si struggevano per me non sapendo quel che ne fosse stato della mia vita. Il 13 marzo mi confessai e il 14 feci il precetto. Quasi tutte le domeniche ci vedevamo la messa. Il 12 di aprile caddi ammalato al campo di Germescheim.

Il 13 ricevetti il primo pacco dalla famiglia e continuarono regolari, così posso dire che quasi incominciai a togliermi un po’ di fame. Nel campo stavano dei russi che vendevano un po’ di patate e una pagnotta 4 marchi. Il rancio era malissimo. Foglie di barbabietole e 200 g di pane. Da questo si può considerare quanto si stesse male. Infatti in quel campo da 200 italiani del 23 novembre a tutto maggio per la fame ne morirono 60. Da maggio in poi non ne morirono così molti, perché quasi tutti cominciarono a ricevere pacchi. Anche in quel campo eravamo obbligati al lavoro, io comandavo i lavoratori e la mia paga era di 60 feniche al giorno mentre per i soldati 30.

Giorno 8 luglio si sparse una malattia chiamata influenza, io stetti 4 giorni in infermeria e 4 in riposo, poveri ammalati che non avevano nessun medicinale. Io prendevo per medicine delle gassose che pagavo 20 feniche l’uno, perciò guai per quelli che non erano aiutati per niente. Il giorno 24 agosto 1918 partii per il lavoro a Estat, 400 km lontano a raccogliere fiori che fanno la birra. Eravamo 60 italiani nel nostro campo, anche lì trovammo dei prigionieri francesi. Stavamo malissimo. In confronto ai francesi eravamo come tanti elemosinanti.

Stettimo 8 giorni e poi ci mandarono a lavorare dai contadini. Dal mio padrone eravamo in 9, si stava molto bene per il mangiare. Si mangiava 5 volte al giorno e cioè, alle sei del mattino, alle 12, alle 4 e alla sera. Perciò molto bene. Fu per la durata di 10 giorni e in quei 10 giorni ricevetti 2 pacchi e dieci lettere tutti una sera.

Giorno 12 settembre di ritorno a Estat, mentre dovevamo partire per il nostro campo di Germesheim ebbi una punizione per il seguente motivo. Siccome da 8 giorni non distribuivano pacchi, al momento della partenza non potevo più sopportare per la rabbia, allora dissi che se non ci avessero distribuito i pacchi, non saremmo partiti. Nel mezzo della ribellione generale, mi arrestarono e mi portarono al carcere civile, condannandomi alla pena di 21 giorni. Si stava malissimo in quella cella piccolina, ma il peggio per me era che non potevo scrivere a casa.

Il 14 ottobre finii la punizione e subito partii per il mio campo. Ricordavo che un anno prima, il giorno che finii la punizione, avevo finito la licenza e pensavo che i giorni passati nel carcere, un anno prima l’avevo passati in famiglia. Giunsi a Germesheim il giorno 15 ottobre e il giorno 16 ricevetti 14 pacchi i quali, 6 erano della croce rossa e 8 della famiglia. Giorno 24 fui mandato a un altro lavoro a Franchital in una fabbrica di munizioni. Si stava un po’ meglio per il mangiare e per il dormire e la paga era di 1 marco e 52 feniche al giorno. Giorno 2 novembre avevamo saputo dell’armistizio dell’Austria e s’aspettava giorno per giorno quello della Germania. Incominciammo a rallegrarci e ogni giorno c’erano notizie migliori, finché giorno 10 fu accertato l’armistizio.

La mattina del giorno 11 alle ore 8 il padrone della fabbrica ci riunì dicendo: “italiani, presto, prendetevi la vostra roba che alle ore 9 dovete partire per il campo e attendere il rimpatrio, perché c’è stato l’armistizio”. Al campo aspettammo sino al 24 quando alle ore 11 giunsero 9 ufficiali francesi, prigionieri stessi, per prendere la consegna nostra perché di là i tedeschi dovevano sgomberare.

Ecco il momento della nostra allegria. Anche se eravamo passati sotto il comando francese, cominciava per noi il cammino verso la libertà. Finiva la fame, la sera andavamo al cinematografo. Il primo dicembre giunsero le truppe francesi e per noi il 2 fu la partenza per il rimpatrio. Giorno 11 giungemmo in Italia, nostra Patria che ci attendeva da 13 mesi. La sera del giorno 12 giungemmo al concentramento di Montemerlo dove mi fu rilasciata la licenza la sera del 27 dicembre 1918. La mattina del 31 ero nelle braccia dei miei cari che mi piansero e aspettarono per lungo tempo.

In questo momento, ringraziando il nome di Dio, alla presenza dei miei cari vi saluto vivamente.

Sottoscrivendomi

A cura di Felice Prete



Un Commento a “Vita durante la prigionia in Germania del Sergente PIETRO PRETE”

  • Giuseppe Argentiero:

    Quella che racconta il sergente Prete è la dodicesima battaglia dell’Isonzo, meglio conosciuta come disfatta di Caporetto.
    Si trovava a Tolmino in Slovenia ed è incredibile leggere la testimonianza di un nostro concittadino che ha vissuto in prima persona questi avvenimenti.
    Fino al settembre 1917 le forze tra italiani e austroungarici si equiparavano.
    Dopo la rivoluzione russa i tedeschi spostarono le truppe del fronte orientale in Italia per dar man forte agli alleati Asburgici e quella fu la conseguenza.
    Un disastro.
    Il bombardamento dei tedeschi, la cattura, la deportazione a piedi fino a Lubiana e da lì in un campo di concentramento in Germania.
    L’armistizio e il ritorno a casa.
    102 anni fa.
    Quest anno invece è l’anniversario dei 100 anni della traslazione del Milite Ignoto all’altare della patria.
    Forse Pietro ci ha voluto mandare un messaggio facendo riaffiorare la sua storia di sopravvissuto alla guerra e alla prigionia, ovvero che anche noi a San Michele
    abbiamo il dovere di ricordare il loro sacrificio.

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