IL MIO DIZIONARIO (di Vincenzo Palmisano) – 28^ parte

LA TARICATA

Le parole e i ricordi sono per me come le ciliegie, una tira l’altra. Mi succede anche in questo momento.

Leggo la parola dialettale  taricata  ( radice ) e, automaticamente, mi torna in mente la parola rarica

(radice).

La prima mi fa pensare al concertone di agosto organizzato dal professore Lorenzo Caiolo a San Vito dei Normanni, alla marea di gente festante che lo attorniava, e alla Settimana dei bambini del Mediterraneo, una idea geniale di respiro internazionale da lui realizzata ad Ostuni, che ebbe un incredibile strepitoso successo, e che per la prima volta vide insieme, tra gli altri, bambini palestinesi e bambini israeliani.

La seconda parola ( rarica ) evoca il titolo di una raccolta di poesie in dialetto rionerese di Carmine Cassese (con traduzione di Raffaele Nigro, saggio introduttivo di Enzo Spera, disegni di Vito Matera) pubblicata da Nunzio Schena Editore di Fasano. Nel 1986.

L’autore, Carmine Cassese, nacque nel 1915 a Rionero in Vulture , dove, dopo aver frequentato la scuola elementare, visse per tutta la vita del suo mestiere di fabbro.

Nel tempo libero, però, da autodidatta, continuò a studiare e, leggendo, approfondendo e meditando, scrisse in versi, in prosa, in vernacolo e in lingua più di trenta libri di vario genere, tra cui un notevole dizionario di termini e detti  del dialetto arcaico di Rionero.

Quando nell’agosto del 1998 morì, La Gazzetta del Mezzogiorno, nel darne la notizia, ricordò che Carmine Cassese, negli anni ’70, era stato insignito da Eugenio Montale del Premio Viareggio per la Poesia dialettale.

Perché ricordo insieme il professore Caiolo e Cassese?. Perché, nella loro evidente diversità, sono accomunati dagli stessi valori e dagli stessi ideali: l’orgoglio delle proprie radici, l’impegno civile e culturale, la solidarietà, la fratellanza tra i popoli, la pace e il sogno di un mondo migliore.

Postilla: Carmine Cassese era parente di mio nonno materno Vincenzo, ascendenza lucana rionerese.

BUE

Nel mio vagabondaggio domestico fra le parole, non incrocio più l’espressione “popolo bue”. E’ sparita dalla circolazione e sembra morta e sepolta.

Oggi, invece, sfogliando un libro, ho incontrato i versi della poesia ”Il bove” di Giosuè Carducci, che imparai a memoria alla scuola media e che non ho  mai dimenticato.

E immediatamente ho risentito la voce del poeta che, come in uno struggente adagio musicale, canta:

“T’amo, o pio bove,

e mite un sentimento

di vigore e di pace

al cor m’infondi…”

Ho rivisto la bellezza del paesaggio della maremma toscana, e , per un attimo, immerso nel “divino del pian silenzio verde” dell’ultimo verso, mi sono sentito fuori del tempo, al riparo dal Covid e lontano non dal popolo ma dalle amarezze della vita quotidiana.

SPARLAMENTO

Sparlamento: non comune, azione dello sparlare, del dire male di qualcuno o di qualcosa.

La parola apparve per la prima volta  in una edizione speciale della Editrice Hoepli nel 2008, ma che io sappia, non è stata mai usata, né nella comunicazione orale né in quella scritta.

E quando questa mattina, dopo tanto tempo, l’ho letta, mi sono chiesto: perché non è mai diventata una parola comune?. Evidentemente, secondo me, perché in un’epoca come la nostra, nella quale le parole non son più pietre ma bombe, non c’era alcun bisogno di una nuova parola per esprimere la violenza verbale barbarica che dilaga sui social.

CASSA INTEGRAZIONE

ovvero la spada di Damocle sul batticuore dei precari.

INTERROGATIVO

In questi giorni di clausura ho riletto Candido di Voltaire.

Poi ho richiamato alla memoria questi versi  di Salvatore Quasimodo:

Sei ancora quello della pietra e della fionda,/uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,/ con le ali maligne, le meridiane di morte,/ – t’ho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche, / alle ruote di tortura. T’ho visto, eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,/senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,/ come sempre, come uccisero i padri, come uccisero / gli animali che ti videro per la prima volta. ( da “Uomo del mio tempo”).

E alla fine mi sono chiesto: dopo il Covid saremo migliori?.

Vincenzo Palmisano

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