Ce ne importa un fico secco (mandorlato) – di Francesca Iurlaro

Pubblichiamo di seguito l’articolo “Ce ne importa un fico secco (mandorlato) – consumismo etico o recupero delle tradizioni del passato?” apparso sul periodico di ristorazione e gastronomia “Zafferano magazine” di novembre 2018,  scritto dalla nostra giovane conterranea Francesca Iurlaro nella rubrica “Gourmetica – piccola filosofia del gusto giusto”:

Una buona strategia per capire se un cibo è etico o meno consiste nel chiedersi: è qualcosa che qualcuno mi avrebbe offerto da piccolo e io avrei rifiutato perché “troppo” semplice e naturale?

Quante volte da piccoli, di ritorno dal mare, mamme o nonne ci hanno proposto, a noi che ingrati avremmo preferito una merendina, il pane col pomodoro succoso appena raccolto dall’orto, o con un velo di marmellata di albicocche appena fatta?

E con quale nostalgia mista a pentimento per l’idiozia infantile di un tempo oggi ricerchiamo quella semplicità, difficile al palato perché ogni volta diversa e mai omologata, ma facile per il cuore, e certamente sostenibile eticamente?

Stagionalità, km0 e un sapere artigiano tradizionale capace di trasformare le materie prime in ricette senza tempo sono alcuni dei motivi del ritrovato successo culturale e commerciale di questi e molti altri alimenti – e del motivo per cui istituzioni come Slow Food cercano di preservare questi saperi dall’oblio del mondo moderno industrializzato.

Per molti ex bambini del Sud Italia fra questi cibi merita un posto speciale il fico secco, una vera e propria bomba energetica che in molte zone di Italia è oggetto di una grande operazione di rivalutazione, soprattutto, a San Michele Salentino (BR), nella variante chiamata ‘fico secco mandorlato’, che prevede la lavorazione di due fichi aperti a metà, accoppiati a forma di otto, ripieni di una mandorla tostata in ogni metà e aromatizzati con scorza di limone e semi di finocchio.

Esistono tre Presidi Slow Food sul fico secco (San Michele Salentino, Carmignano e Atessa), una rete che connette i produttori del Mediterraneo e, in generale, un rinnovato interesse per questa raw protein bar d’altri tempi che si traduce, per le comunità locali, in aumento di introito, miglioramento di immagine e in un investimento virtuoso nel capitale umano: a San Michele, ad esempio, è il contadino il principale attore, perché il fico mandorlato è prodotto e messo in commercio dalle stesse aziende agricole.

Esiste, però, un elemento di critica che in questi anni sta emergendo nell’opinione pubblica – si pensi alle critiche che vengono rivolte agli chef che reinventano, in chiave gourmet e dunque a un prezzo maggiore, piatti poveri della tradizione. Anche i filosofi si interrogano su questo particolare fenomeno chiamato ‘consumismo etico’, l’idea cioè che il cibo etico e sostenibile diventi appannaggio di una élite di consumatori responsabili che votano col proprio portafoglio e, dunque, disposti a spendere “quel qualcosa in più” pur di mangiare giusto.

Rivalutare ricette tradizionali per questo mercato non è forse uno snaturamento delle loro origini, nonché una forma di spossessamento culturale e, in altre parole, una strategia di marketing sotto mentite spoglie?

Secondo alcuni, introdurre dei principi etici nell’economia renderebbe l’etica stessa vulnerabile – perché soggetta anch’essa alle logiche del mercato.

D’altro canto, però, il maggiore profitto che deriva da questo sistema di valorizzazione dei prodotti è vantaggioso per le comunità, che rischiano altrimenti di perdere queste tradizioni e ricevono incentivo a perpetuarle.

Così succede al fico mandorlato: o almeno, così succederà finché qualche vecchina del posto continuerà a offrircelo, questa volta per nostra gioia, per merenda.

Francesca Iurlaro


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