GENERE UMANO (di Rosaria Gasparro)
La piazza è troppo grande e vuota. Arrivano in punta di piedi. Un bel modo di arrivare in una fredda sera di febbraio. Un modo delicato. Un genere a rischio quello della presenza gentile che non a caso fa rima con civile. Ognuno col suo genere, quello che ci portiamo addosso e che chiamiamo identità, le relazioni, i ruoli, l’appartenenza, il contesto. Con quella speciale conoscenza che nasce dal proprio corpo, dalla propria storia, con una serena consapevolezza di sé, Roberto dice che non si sceglie cosa essere, che genere e sessualità possono non coincidere, che l’identità percepita non sempre è quella biologicamente assegnata. Che alcuni vivono il dolore di sentirsi stranieri nel proprio corpo.
Mentre organizzano la loro affissione minimalista di piccoli adesivi sui pali della luce, sulle cabine elettriche, sui quei non luoghi che da un lato non infastidiscano la gente e dall’altro possano far sentire meno solo chi vive la loro stessa dimensione affettiva, provo un senso di gratitudine per Daniele, gli altri e le altre. Per il loro viso aperto, per il coraggio di esposizione, un coming out pubblico nella piazza grande, un’esposizione di dignità, una presenza di aiuto.
Per questo volevo esserci, per dare forza alle fragilità di una minoranza, che non scappa via, che non si nasconde, che non ha paura. Nel più piccolo paese della più piccola provincia pugliese, questo può accadere, si può rompere il silenzio sociale, si può parlare dell’altra sponda. Prendere il largo nei pensieri, nella cultura, capire la tempesta. “Passiamo all’altra riva”, disse Gesù ai discepoli nel Vangelo di Marco. Bisogna avere coraggio per lasciare le proprie certezze e affidarsi ai flutti e al vento. Attraversare il dubbio per un’altra riva che non si vede.
Volevo esserci come eterosessuale, come donna i cui diritti vengono da studi di genere, quelli che rivelano i processi di dominazione e di esclusione, che continuano a riguardarci. Volevo esserci come insegnante che conosce le insidie delle parole, per una riqualificazione delle stesse e quindi dei pensieri che veicolano, e quindi delle relazioni che costruiscono. Perché la scuola è il luogo dove si devono proteggere le diversità, dove si devono imparare le parole giuste per dire, per riflettere sul vocabolario dell’insulto quotidiano e scoprire che quando diciamo “finocchio” ci stiamo riferendo al legno di ferula, quello del finocchio selvatico, che si usava nei roghi medievali per coprire l’odore di carne bruciata. Avremo forse meno leggerezza nel ferire. Perché la scuola, come la chiesa, può essere il luogo dove si fabbricano pregiudizi, discriminazioni e sofferenze.
Volevo esserci come persona tra persone. Ognuna nel suo genere imperfetto, perché come scriveva Silvia Plath “la perfezione è terribile, non può avere figli”. Perché, al di là delle differenze specifiche, esiste un genere prossimo più vasto che ci contiene, il genere umano.
Rosaria Gasparro
—–
Articolo correlato:
Tante belle parole, ma vuote di senso: le insidie delle parole, appunto!
Gesù Cristo citato a sproposito!!!
“Maschio e femmina li creò” resta e resterà sempre un punto fermo. Anche se la scuola(ove non si deve mai insegnare – è sottolineo insegnare – il vocabolario dell’insulto) e, soprattutto, la Chiesa non devono mai essere luoghi dove “si fabbricano pregiudizi, discriminazioni e sofferenze”!!!
Distinti saluti.