IL CARNEVALE (di Nicola Romanelli)

Quello di oggi lo sappiamo, è tutto pieno di colori e sfarfallante, diverte la vista, ma quello di tanti e tanti anni fa, quando non si vedeva il becco di un soldo era tutto un’altra cosa, ma la partecipazione e divertimento non aveva confronto:

Il carnevale

Il sole si diverte a giocare a nascondiglio. Sembra pure lui allegro mentre coi raggi colora le facciate della stretta strada, e presto scompare  dietro buffe nuvolette per nascondere la sua allegria.

Da fuori giungono voci allegre, risate aperte, mentre io nel letto, appesantito dalle troppe coperte, esterno il malumore, in  lamento fievole  continuo, contro la condizione. Quando tento di sollevarmi, una mano mi ricopre, un dolce volto, dall’angelico sorriso, mi sussurra di stare tranquillo.

-          Dormi Colì, dormi piccino mio ché guarisci presto. – È la voce della mamma.

-          Non ho sonno e non sto male, solo ho tanta debolezza, sto bene. – piagnucolo.

Tutto attorno è stranamente ovattato. Sento in lontananza le sorelle eccitatissime. Dietro la persiana sbirciano, biricchine, quanto succede sulla strada.

Il loro stupore improvviso mi dà carica.

-          I cavalli. Arrivano le maschere a cavallo. –

Si ode lontano lo scalpiccio degli zoccoli.

-          Mà, lasciami andare. Voglio vedere – la imploro con amaro sorriso.

-          Non può essere. Sei debole! –

-          Se tu mi prendi la mano, ce la faccio, Mà ! –

Il ritmo cadenzato degli zoccoli è vicino.

Insisto, imploro, mi arrabbio!

-          Aspetta, – la mamma mi lascia e va verso la porta. Lina e Ria scappano in strada, sulla schiena hanno ciascuno uno scialle coloratissimo, rotondo, che esse stesse si sono fatto, con il consiglio della mamma.

La mamma finalmente torna. Mi aiuta a sollevarmi. Mi sento pesante come un chiangone (sasso grosso), le pareti girano. Sorrido e faccio fretta alla mamma.

Lei capisce, mi prende in braccio e mi adagia sulla sedia dal fondo di paglia, che previdente aveva appostato accanto la porta. Dietro la persiana, vedo non visto. Lina e Ria sono sulla soglia di nunna Letchye che litigano per scherzo con lei. Quattro cavalli sfilano davanti. I cavalieri mascherati da banditi chiacchierano coi vicini di casa, aggruppati sulle scalette, per precauzione.

Chiedono polpette e vino.

-          Mannaggia le polpette – esplode nunna Letchye, – chi ce li dà le polpette, chiede ridendo. – Vino, quante ne volete – Toh – e alza un boccale colmo.

-          Vituccia, la signora di fronte, esce improvvisamente in strada con un piatto pieno di polpette fritte. I cavalli, spaventati s’imbizzarriscono, e per miracolo non la investono.

Il bel cavaliere, sembra proprio Zorro, le prende veloce il piatto. Mangiano e bevono ingordi, mentre i cavalli danno segni di nervosismo.

Gli occhi febbricitanti, osservo il mio sogno. Invidio quei giovani e vorrei essere al loro posto… sono su uno stallone nero, vestito anch’io di nero, una maschera sul mio viso. Io sono Zorro! Galoppo come il vento. Attorno ci sono tutti i miei eroi: banditi, indiani, Dartagnan coi quattro moschettieri. Galoppo, galoppo felice tra tutti i miei compagni, poi sul più bello cado da cavallo e sbatto la testa a terra!

Mi sveglio, sono con la fronte sul gomito della mamma. Nunna Letchye mi prende sotto un braccio, mamma dall’altro e lentamente mi lascio trascinare a letto mentre tento una debole resistenza.

-          Il mio cavallo – mormoro.

-          Se ne sono andati – dice col solito tono. Non capisco mai se scherza o è arrabbiata per davvero. – Quei farabutti si sono portati il mio boccale. –

Mi sento coperto. Troppo peso. Me ne libero, mi ricoprono affettuose.

-          Ha un po’ di febbre – dice la voce smorzata di nunna Letchye.

-          Almeno il peggio è passato – aggiunge la voce distante della mamma.

Una mano mi ricompone i capelli – Spero che non mischia la rosalia agli altri. ! – Un’invocazione più che un desiderio è quanto la mamma esprime.

Quando mi guardavo allo specchio pieno di puntini, ero buffo e ridevo. Ma quando la mamma mi lavava con acqua e sapone e mi vestiva coi panni freschi notavo che quei puntini erano anche su tutto il corpo.

Sono guarito in fretta, ma anche il carnevale se n’è andato.   Indispettito mi consolo ricordando  quello dell’anno passato che fu veramente più bello… il professore diceva che il carnevale bisognava prepararlo, mentre l’improvvisazione era la mia arte. Non avevamo altro che quella immaginata coi compagni. Uno straccio, una vecchia coperta su cui allargare un buco e infilarcela come facevano gli indiani. Vecchi pantaloni logori, che di solito si usavano nei lavori in campagna. Qualche cappello stracciato, scarponi bucati o con mezza suola, andava tutto bene!

Quell’anno volevo fare colpo su una ragazzina conosciuta a scuola, e volevo fare qualcosa di sensazionale per attirare la sua attenzione.

Gironzolando coi compagni, capitiamo su un mucchio di calcinacci. Scorgo un candr intatto senza il fondo. Mi ci infilo dentro e resto incastrato. Si accende nel mio cervello una fioca lampadina!

Mi guardo attorno e mezzo sepolto dai calcinacci, spunta un manico. Lo afferro, tiro, viene fuori un orinale ammaccato. Me lo metto sulla testa con convinzione. Ora quella strana lampadina mi brilla luminosa!

-          Domani sera a carnevale sono in giro così. Sfido io se così non attiro l’attenzione!  -

Sono le quattro passate. È un bel pomeriggio. Il sole allegro partecipa alla festa sulla piazza.

Tutto il paese si è adunato su uno dei quattro angoli della piazza di fronte al bar Gennotti.  I balconi adiacenti sono stracolmi. Tutti vogliono assistere alla “ Pignata di polpette “.

Il sindaco scarparo, s’infila in bocca l’indice a uncino, ed emette un fischio potente. È il segnale. Scoppia un urlo selvaggio d’incitamento, tra risate e sghignazzate.

“ La regola la conoscete. Tre colpi e basta “ si sgola e gli rispondono fischi.

Vitucc “ accitapitutchye (Ammazzapidocchi) un’usanza da noi il soprannome accompagna il nome o addirittura ne fa le veci, e tante volte più espressive del nome stesso,  regge un bastone alla cui estremità è appesa la pignata piena di polpette, annodata con un tovagliolo. Di fronte, Cosimo lu surg (il sorcio) è bendato e stringe tra le mani il margel [ manico  di zappa ]. Alla cieca deve colpire la pignata mentre Ammazzapidocchi con cautela tenendo sempre la pignata, con estrema attenzione cambia lesto posizione per evitare le mazzate.

Attorno i due il cerchio si è prudentemente allargato. Da più parti volano suggerimenti. “ A destra “ gli sussurra uno vicino. Il Sorcio molla una mazzata nel vuoto e una fragorosa risata risponde alla sua delusione.

“ L’avevi quasi preso “ gli bisbiglia un altro. “ Attento un po’ a destra “

Il Sorcio si fida alla voce riconosciuta dell’amico  ne molla un’altra a vuoto, e il ridere spassoso del pubblico si fa rumoroso.

“ Dietro, dietro “ lo incita una voce molto vicina. E panfete un altro colpo. Nell’impeto perde l’equilibrio e ruzzola a terra. I paesani esplodono. Il Sorcio s’incavola, lo hanno preso per fesso, si toglie la benda e la scaraventa a terra. Un altro in attesa la prende e il sindaco in persona gliela stringe sugli occhi e gli molla uno schiaffone per provare che non ci vede.

Pierino “ Gattamorta” è più furbo, ha capito come è stato ingannato l’altro e come sente “ a sinistra “ finge di girarsi a sinistra e mena un colpo a destra. Per poco ha mancato la testa di Ammazzapidocchi. “ Oooh “ fa la massa sbigottita. Gattamorta intuisce che è vicino e si avventa risoluto sulla stessa direzione, strozzando i festanti dalle risate.

Si fa bendare Filisc “ la mosca “ che saltellando a sproposito rallenta la tensione. Ma anche a lui i colpi vanno a vuoto.

“ Siete dei fannulloni.  Che avete in quella cucuzza. Manco una pignata siete capaci di prendere! “ È Cosimo Quadghyer, abile nella caccia.

-          Avanti dai, fatti sotto, prova tu fai vedere quanto sei capace, lo provocano in tanti. – E Quadghyer di rimando: – Datemi un tabbott { fucile da caccia}  e vi faccio vedere cosa so fare. -  Delle sonore pernacchie sottolineano la sua sparata.

Mitchye Pisulin  chiede e si fa bendare. Si ferma, annusa. Poi sul tacco del piede sinistro fa un giro a fulmine, e con precisione quel diavolo sorprende Ammazzapidocchi che s’era distratto ammirando la piroetta. Il colpo astuto è stato inferto dosato. La pignata è rotta sul collo. Le polpette sparpagliate sulla piazza spariscono all’istante dai vicini che soffiandoci sopra se le infilano in bocca. Pisulin borbotta, le polpette sono sue, se l’è guadagnate, sono sue e se le mangia con chi vuole, e invece gli tocca solo quella schiacciata sotto il piede.

Il sindaco gli porta una menza di miero (anfora di vino ), e gliela consegna :

- Sei il campione, bella la mossa. Bravo. E questo è per far scendere giù le polpette. –

Mitchye respinge la menza: – Mestr Turris, fammi compagnia, se ti fa piacere, tocca a te la prima sorsata. –

-           Come vuoi – cede il sindaco a tanta cortesia. Beve una lunga sorsata dalla menza, per passarla subito al vincitore . Poi la menza viene passata di mano in mano e tra pacche e racconti sulle gesta si allontanano chi per  formarsi in gruppi  e proseguire nelle chiacchiere e chi, quasi l’ora della cena, se ne torna a casa.

Tra quella gente osservavo con rabbia e invidia. “ Aspettate che farò grande, e vedrete Colin figlio a Cosimo di Barnabbät che fa “.

A casa, riuniti a tavola, a mangiare calamaretti fritti, sento il fischio, il richiamo dei miei compagni. Corro alla porta e grido loro che arrivo subito.

-          Esco coi miei compagni – avverto e in piedi divoro il resto del mio piatto.

-          Apri gli occhi, uagliò – raccomanda mio padre.

-          Non fare tardi – aggiunge la mamma.

-          Va bene, va bene – grido e me la svigno.

Di corsa coi compagni andiamo al nostro nascondiglio dove abbiamo riposto il vestiario per la mascherata.

Filisc, indossa una gonna stravecchia della madre, scovata nella casedda di campagna, un maglione pieno di buchi e una maschera di Zorro che ha però comprato.

Livio, mentre ci fa pisciare tra una barzelletta e l’altra, è già pronto e si stupisce pure che siamo ancora indaffarati e indecisi. Ha vecchi scarponi, pantaloni alla zuava, già visti a suo padre, e un capellaccio trovati in campagna da tempo dimenticati, così ci racconta. Visto che non vuol spendere un soldo, senza chiederlo ha preso un velo nero alla sorella, per coprirsi il volto.

Franco, pantaloni larghi per lui ma opportuni al momento, e un corsetto della madre, lui dice che ha dovuto insistere per farseli dare. La maschera ha dovuto scambiarla col fratello dandogli la sua porzione di polpette. E mentre lo canzoniamo lui si fa serio. “ Speriamo che non  mi vedano i miei, li ho fregati senza dir niente.

-          Non ti preoccupare -  lo consola Livio, – quando torni a casa, le botte sono assicurate. -  Ridiamo a crepapelle ma continuiamo a vestirci.

Franco continua il travestimento, con una larga tovaglia si copre la testa e se l’attacca sotto il mento con un nodo carino.

-          A vederlo non siamo capaci di trattenerci, talmente è realistico, e ci scompisciamo dal ridere. Lui si meraviglia  e serio * cosa avete da ridere non vi capisco. *

Pierin, lui ci accompagna per presentarci e come garanzia non deve essere mascherato.

Ah, dimenticavo. Mi sono di nuovo infilato a stento nel candr, dopo aver indossato un paio di pantaloni logori di Batudd che ho preso nella lamia di sobb Ataén, una sua giacca rappezzata e la maschera me la son fatto da uno straccio scuro praticando due buchi  e un pezzo di corda sfilacciata da un sacco nuovo.

I soldi per comprarla non ce l’avevo e comunque non ho insistito a chiedere, con otto-nove anni chiunque a Massarianova avrebbe capito che per certe muscitiye (porcherie) i genitori non possono buttare via soldi.

L’orinale ammaccato al punto giusto per farmelo stare stretto in testa e un paio di scarponi duri come il cemento.

-          Andiamo, dico, e basta ridere, – e a spintoni a mò d’incoraggiamento ci avviamo verso la piazza. Poi imbocchiamo senza fermarci la strada di Ceglie e dopo il negozio di Azzarito e di Michelargin ci blocchiamo alla prima casa sulla destra dove abita la cugina di Livio, che tra l’altro quella sera per festeggiare il suo compleanno ha invitato tutte le sue amiche.

Dopo le solite trattative la madre ci fa entrare.

Per ricevere qualcosa dobbiamo esibirci cantando assieme. Per questo ci siamo messi d’accordo in precedenza e cantiamo un pezzo della tarantella. Livio balla ma è muto. La cuginetta gli si avvicina : tu perché non canti? domanda. Pierino la tira da parte e le dice serio – è il nostro amico sordomuto.- Lina che è una ragazza sensibile capisce a volo. Arriva la madre con cinque polpettine in un piccolo vassoio con cinque bicchierini da rosolio, e una bottiglia di vino mezza vuota. Li riempie : – Solo un sorso, dice, siete piccoli ma vi dà allegria –

In un battibaleno facciamo sparire tutto ringraziando, malgrado ci aspettavamo qualcosa in più, ma accontentiamoci pensiamo, come inizio non è male.

Sul tavolo in mezzo la sala c’é una bottiglia di spumante, con dolci e dei bicchieri. Capiamo che sono stati preparati per festeggiare il compleanno di Carmelina con le amiche. Ci avviamo verso l’uscita quando Livio va al tavolino, prende la bottiglia e a cenni fa capire che la vuole aprire.

-          No, no – fa Carmela.

Livio insiste dolcemente fin a estorcerne il consenso.

Stringe la bottiglia e la sbuccia tra smorfie. Per scherzo la rivolge verso le ragazze che chiocciolando corrono a nascondersi.

-          Dai adesso basta – si spazientisce Carmela – apri la bottiglia e andatevene altrove.

Livio non pago ha voglia di scherzare ancora e punta la bottiglia violentemente agitata verso la cugina per spaventarla… e il tappo con uno schioppo parte… un grido straziato, Carmela si porta le mani al viso. Livio scappa fuori passando nelle mani di Franco la bottiglia di spumante metà versata. Lo troviamo all’angolo della strada che ci aspetta : – Cosa s’è fatto? – domanda.

-          Un occhio rosso, che domani sarà nero – gli rispondiamo.

-          Porca miseria, mi è scappato, non l’ ho fatto apposta! –

-          Per fortuna sei fuggito – aggiunge Franco – la madre è venuta con la scopa, tutta arrabbiata. Poi ci ha scopato fuori come se fossimo spazzatura. –

-          E cosa siete? – domanda ironico Livio.

Siamo sulla strada dove abita Franco e lui prudente ci porta sull’altra parallela : se mi vede mia madre, chi la sente! meglio girare alla larga – spiega.

Di casa in casa, mangiando biscotti e bevendo sorsi di miero fatto in casa, diventiamo baldanzosi, me in particolare, mi faccio coraggio : – È l’ora giusta – dico alla banda – andiamo da Nenett. –

Pierino bussa, una piccola signora vestita di nero, la madre, viene ad aprire. C’invita ad entrare, – ma solo per poco – ci avverte.

Ultimo sono io. Il cuore batte, il coraggio scema in fretta. Il mio travestimento mi disgusta, anche se devo ammettere che molti si sono divertiti ed i grandi m’invitavano ad  andare così dal sindaco con grandi sghignazzate. Ma io non ho mai capito a cosa alludevano.

In casa vedevo le sorelle grandi e i fratelli  con altra gente invitata che ballavano. Avevano visite ed erano spensierati. Ma lei dov’era?

Un fratello ed altri ci chiedono di cantare qualcosa. “ Scabricciatiellu miu “ dico deciso. Trovo di nuovo il temperamento giusto. Era il canto di Giacomo Rondinella assai in voga. Attacco con foga e concentrazione. Quel canto me l’ero passato tante volte. Volevo fare bella figura. Proprio allora, dalla cucina, con un piatto zeppo di polpette, appare Nenet. L’amichetta Mariye le è  a fianco con una brocca d’acqua.

Canto con tutta l’enfasi, accompagnato dai miei. Lasciandomi cullare dalla melodia melanconica e da un sogno struggente.

- Scapricciatiellu miu, vattinn a casa, non mi fa sci’n galera ind’a stu mese!… -

Ve li siete meritati – dice la madre – non appena terminati.  Tutti ci battono le mani, mentre la compagnia si butta sulle polpette. Nel prendere l’ultima dal piatto che Nenetta mi porge, mi dà di nascosto un pezzettino di carta. È una lettera piegata e ripiegata fino a farlo diventare un fiammifero. Lo prendo e lo chiudo nel pugno. Metto la polpetta in bocca che non riesco a masticare dall’agitazione.

Quando usciamo ho la mano tanto stretta che faccio fatica a riaprirla. Solo a casa alla luce della lampada a petrolio, dopo averla aperta, finalmente  leggo:

“ Mi hai detto che vuoi andare a Roma.

Non voglio che vai.

Rispondimi e dimmi

che non ci andrai “.

 

TAG: Il gusto della mela

 

2 Commenti a “IL CARNEVALE (di Nicola Romanelli)”

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