Una donna chiamata Maria (di Rosaria Gasparro)

La mia famiglia rimpicciolita ringrazia tutti per la vicinanza reale e virtuale, per la qualità delle parole che ci avete donato, nelle centinaia di messaggi inviati, nelle telefonate mai di circostanza.

Frammenti di una donna chiamata Maria, che ha lasciato il segno in forma di madre coraggiosa e allegra, di zia di un’infinità di nipoti senza reale parentela, di nonna adottata da tanti come tale, di amica di tutti diceva (e come? e sì, prendo il buono che c’è… ma Eleonora Nacci era quella del cuore, quella con cui condivideva l’anima bambina e monella), di nutrice di bambini cresciuti realmente nella nostra casa o nelle loro, di ragazza con i capelli corti e la nuca libera che ha cercato il suo posto nel mondo seguendo il desiderio, rifiutando il destino sociale, adattandolo alle possibilità, reinventandosi nel dolore e nel bisogno, lavorandolo con spazzola e forbici, con ricette e taverne, con ago e filo su canapa e lino, con i libri di cui si impossessava appena acquistati, che scomparivano nei suoi cassetti e riapparivano quando li aveva letti e noi li avevamo dati per dispersi nel nostro disordine e nel caos delle librerie.

La prima parrucchiera del paese, che per imparare il mestiere andava in bici a Francavilla col fratello e poi in treno per Taranto. E poi balia e casa famiglia per i figli dei migranti in Germania e in Svizzera. E poi cuoca a Rimini, alla Taverna che amava come la sua casa, con Pierangelo che la seguiva col tovagliolo nella mano come Linus e la coperta, al Silenzio e a domicilio per preparare pranzi importanti con le sue ricette tra tradizione e innovazione.

Pezzi unici di ricamatrice con una tecnica inventata da lei senza disegno, come un’improvvisazione jazz su misto lino, i cui lavori furono esposti -diceva con orgoglio non celato- a Palazzo Pitti a Firenze e alla Bit a Milano, anche al Museo dell’artigianato di New York, diceva, se il suo curatore non si fosse fratturato.

Di scrittrice della sua autobiografia, sette quadernoni fitti fitti. Di fiorista di mammole e orchidee moltiplicate per talea nei pozzi di luce delle nostre case.

Di una donna del novecento con la mentalità aperta, senza troppe convenzioni, che rifiutava di vestire di nero il suo lutto, di portare i capelli lunghi, la libertà nella testa libera colorata di rosso, una che ha vissuto la seconda guerra mondiale, un cancro, due interventi al cuore, due all’addome, un incidente con un’auto che l’ha sbattuta via, una maculopatia, una pandemia, l’abbondanza e la povertà, che è diventata bisnonna di Elias, una generosa con un interesse sincero per gli altri, senza freni inibitori, senza imbarazzo e formalità: ce l’hai la ragazza, che stai aspettando, mi raccomando cercala intelligente e buona di cuore che poi la bellezza svanisce e ti trovi vicino una mummia… Quanto rideva tra sciocchezze e saggezza. Quante confidenze e intimità tesseva con chi conosceva, quanti sfottò e affetto.

Di una giovane donna rimasta vedova a 39 anni non ancora compiuti, che non ha mai voluto un altro amore, Nino era il suo unico uomo, diceva, e poi ho una figlia, che ci fa un altro uomo con noi, una che si è sottratta allo stigma, che ha ripreso i vestiti colorati lasciati nel baule di una zia che zia non era.

Di una con la memoria portentosa e lucida fino alla fine, Maria la memoriosa le dicevo, pensando al Funes di Borges ma con un’altra trama fatta di dettagli, aneddoti, storie, indovinelli, filastrocche, canzoni.

Cantava sempre, aprivi la porta e la sentivi, riconoscevi le melodie, le preferite, che ha voluto cantassimo al suo funerale. Da quella Campana lontana di un musicista e pittore del luogo, Francesco Argentieri, da lei custodita e consegnata alla nostra comunità a Tu sei la mia vita a Felice notte, il suo canto del cigno tre giorni prima di morire.

Dovete piangere il giusto, pregare il giusto, cantare e raccontare. Un addio con tutti i mood dell’animo umano, dolore malinconia coraggio e festa, tutto insieme contemporaneamente passando da un tono all’altro.

E allora la chiusura del cerchio è perfetta, muoio il giorno in cui sono nata, così si compiono insieme la vita e la morte. 95 anni, ci sono tutti, e li sento tutti, non ho ragione di lamentarmi.

Era diventata cieca da tempo, ma quel barlume di luce che conservava lo difendeva e la sosteneva nel buio che avanzava. Parla più forte così ti riconosco dalla voce. L’umanità conosciuta e custodita in un archivio sonoro. Nelle notti insonni con una unica lunga preghiera per quelli che conosceva, iniziando dai lontani per arrivare ai vicini, per i buoni ma soprattutto “pi li brutt, ca quidd ni avine cchjù bisogne”.

Mamma, che fai? Prego. Lo facciamo insieme? Sì, prendimi per mano. Amore mio.

Rosaria Gasparro

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