IL MIO DIZIONARIO (di Vincenzo Palmisano) – 11^ parte

FLASHBACK

Quando nella seconda metà degli anni cinquanta del secolo scorso da San Michele Salentino arrivai a Roma, il mio primo desiderio fu quello di visitare il famoso “Caffè Greco” di via Condotti.

Ritrovo abituale di poeti, pittori, scrittori e registi immortalati in un celebre quadro del siciliano Renato Guttuso.

E fu quella la prima tappa del mio viaggio fruttuoso nel cuore pulsante della città eterna e della modernità.

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Alcuni giorni dopo, percorrendo via Veneto, vidi seduto davanti al “Caffè Strega” un anziano intabarrato in un pesante cappotto con il bavero di pelliccia. Lo guardai e mi dissi: lo conosco. E non mi sbagliavo. Era il poeta Vincenzo Cardarelli.

Sapevo che ogni mattina, aiutato da un cameriere in livrea del caffè, Cardarelli scendeva dal primo piano dove abitava, si sedeva a un tavolino accanto all’ingresso del locale, e, chiuso nei suoi pensieri, trascorreva molte ore scrutando il passeggio felliniano più affollato ed elegante del mondo.

Mi sarebbe piaciuto avvicinarmi, salutarlo e dirgli che ero un suo appassionato lettore, ma il timore di disturbarlo me lo impedì.

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A novembre, inizio dell’Anno accademico, l’incontro con Giuseppe Ungaretti fu emozionante e stupefacente. Per la prima volta vedevo un poeta che scendeva dalle nuvole del Parnaso e mostrava agli umani la sua terrena personalità.

L’aula era già gremita quando arrivò. Salì in cattedra, estrasse dalla borsa i Canti di Leopardi e cominciò a leggere. Leggeva, analizzava, commentava, e per noi studenti era come assistere a uno spettacolo.

Ogni tanto, all’improvviso, smetteva di parlare, si girava verso la grande lavagna inchiodata alla parete che aveva alle spalle, allungava la mano come se volesse scrivere qualcosa, ma dopo un attimo di sospensione si rigirava e tornava a parlare.

Ed era quello il momento in cui i suoi occhi azzurri brillavano e un sorriso gli illuminava il volto.

Nel mio immaginario, ascoltandolo, il pessimismo del grande Recanatese si trasformava in una barca tra le onde rabbiose di un mare in tempesta che a poco a poco si placa e torna la quiete che consente ai naviganti di arrivare al termine del viaggio.

Quando Ungaretti parlava, scarnificava le parole, spogliandole di ogni orpello. Ed era come se con la sua voce aspra e martellante volesse incidere la pietra “fredda, dura, prosciugata, refrattaria, totalmente disanimata” del suo Carso.

Dopo un’ora intensa e drammatizzata, che aveva catturato la nostra attenzione, un lungo e strepitoso applauso suggellò la fine della lezione.

Un rito riservato solo a lui.

Vincenzo Palmisano

( continua )

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